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Le cinque fasi della mia transizione professionale - Da corporate finance a health&mindset coach

crescita personale mindset Nov 08, 2021

Molto spesso ci imbarchiamo in dei percorsi professionali che non sono la nostra vocazione. E anche se lo notiamo - soprattutto quando abbiamo investito molto nella nostra formazione - facciamo fatica a pensare di poter cambiare lavoro. In questo articolo racconto le fasi della mia transizione professionale che mi hanno portato dal mondo della corporate finance al ruolo di coach del benessere.

 

Una transizione non una rivoluzione

La parola non è scelta a caso. Si tratta di una transizione perché è avvenuta gradualmente e in un arco temporale piuttosto ampio. Quando pensiamo ad una trasformazione professionale immaginiamo un punto di rottura, un momento in cui cambiare tutto dall’oggi al domani. Sentirsi sopraffatti dall’idea, tanto da pensare che cambiare sia impossibile, è una reazione naturale. Il lavoro ci supporta finanziariamente ed immaginare che questo si interrompa, o diventi meno stabile non sembra un segnale di un cambiamento “positivo”.  

La verità è che le transizioni professionali raramente sono tagli netti, ma più spesso sono il risultato di un processo di esplorazione del mondo e di sé stessi che, gradualmente, ci accompagna proprio nella direzione in cui vogliamo andare. Quando io ho iniziato a capire che dove mi trovavo non era la mia strada non avevo tutte le risposte dal primo giorno. Per questo voglio raccontare le cinque fasi di questo processo, impegnativo e complesso, che mi ha portato qui a scrivere per voi.  

Potete anche ascoltare questo blog all'Episodio 17 del mio podcast Healthy Busy Life, cliccando sotto:

 

Chi è – e chi era – Francesca, Health & Mindset Coach

Per chi è nuovo su questo blog io sono Francesca Deane e sono un Health & Mindset coach certificato all’Institute for Integrative Nutrition di New York.

Prima di diventare un coach ho lavorato per quasi dieci anni in corporate finance coerentemente con i miei studi. Sono laureata in economia e ho preso un master a Londra per diventare chartered accountant. Ho lavorato per multinazionali e società di consulenza molto grandi sia a Roma che a Londra.

Se vuoi sapere di più sulla mia storia ed ascoltare il mio percorso di transizione professionale raccontato da me, ascolta il mio podcast oppure continua a leggere:

 

Prima fase: il risveglio

La prima fase non ha un vero punto di inizio. Gradualmente ho sviluppato una consapevolezza che quello che stavo facendo non fosse adatto per me. Ho iniziato a collezionare una serie di emozioni e sensazioni che erano – col senno del poi - veri e propri campanelli di allarme. Mi svegliavo la mattina ed ero in una delle città più belle del mondo, Londra. Tuttavia, ciò non bastava a tenere alto il mio entusiasmo: non ero entusiasta di andare al lavoro, non ero felice di passare otto del mio tempo in quell'ufficio e il mio stile di vita mi stava stretto. Mi dicevo: “nei prossimi 40 anni non è questa la vita che voglio fare.”

Ci è voluto tempo anche per realizzare cosa volessi davvero: desideravo una vita flessibile, dove avessi controllo del mio tempo, ma soprattutto e avevo un bisogno inespresso di creatività. Mi sono sempre nascosta tra la mia organizzazione e i fogli Excel ed esprimevo solo parte della mia personalità.

Nei vari anni nel mondo corporate ho continuato a cambiare posizioni lavorative: non ero mai davvero al mio posto.

 

Seconda fase: l’esplorazione

A quel punto ho iniziato ad osservare quelle persone intorno a me che vedevo contente e soddisfatte del loro lavoro. Mi sono iniziata a chiedere quale fosse il fattore discriminante per il quale loro si sentissero al posto giusto, vivendo la propria carriera come se non fosse davvero un lavoro.

In questa fase mio fratello è stato la mia ispirazione. Lui è uno storico dell'arte, adesso professore all’Università La Sapienza di Roma, da sempre appassionato per le tematiche del suo lavoro. Mi ero sempre chiesta come facesse a lavorare così tanto e con il sorriso in bocca. La risposta era semplicemente: per passione. Tutto quello che lui faceva lo appassionava ed era allineato al suo talento e al suo modo di esprimersi.

Per questo ho iniziato a chiedermi: che cosa mi appassiona? E ho realizzato che una strada poteva essere il benessere, ma non secondo le classiche professioni del settore: nutrizionista, dietologa, etc. Quelle avevo già chiaro che non fossero per me perché non mi rivedevo in nulla di “clinico”.

L’illuminazione è arrivata per caso quando ho scoperto la figura del coach, come un fulmine a ciel sereno. Ho infatti letto la descrizione del ruolo data dall’istituto in cui poi mi sono formata, e tutto ciò che riuscivo a pensare era: “ma parlano di me! Qualcuno che si occupi di benessere a 360 °? Sono io! Che lo faccia accompagnando le persone in un percorso di benessere olistico oltre la sola alimentazione? Sempre io!”.

La mia visione diventava sempre più chiara man mano che raccoglievo informazioni su questa nuova carriera. 

 

 

Terza fase: il reality check

Tuttavia, l’entusiasmo iniziale è stato un po' soffocato da una serie di pensieri limitanti. "Come faccio a lasciare una carriera avviata e ben pagata per perseguire qualcosa di cui conosco poco e niente? Posso fidarmi davvero di quell’istinto che mi dice che sia la cosa giusta da fare? Come faccio a comunicare alle persone intorno a me, a partire dai miei genitori, che voglio lasciare un lavoro a tempo indeterminato per diventare un coach? Cosa penseranno le persone se faccio una scelta del genere? E che succede se poi comincio e fallisco?".

Dal momento dell’illuminazione al momento in cui ho iniziato a studiare per diventare coach sono passati ben otto mesi. Mesi in cui ho continuato a fare il mio lavoro, in cui continuavo ad andare in ufficio e sentire che la vita che stavo facendo mi stava stretta, mentre nella mia testa continuavo a pensare all’idea di diventare un coach.

Il punto di rottura l’ho raggiunto grazie a mio marito, americano e cresciuto con una mentalità diversa dalla mia e che mi ha spinto a provarci, fornendomi il supporto giusto per lasciarmi alle spalle lo scetticismo silenzioso che mi circondava al tempo.

Quando ho investito nella mia formazione - un investimento piuttosto importante -  l’ho fatto sapendo che nel peggiore de casi mi stavo dedicando a qualcosa che mi interessava e che avrei potuto comunque utilizzare per vivere meglio con me stessa. Mi dicevo che nel peggiore dei casi avrei imparato qualcosa.

Poco tempo dopo avevo la mia certificazione.  

 

Quarta fase: la sindrome dell’impostore

Ne ho parlato già negli episodi precedenti del mio podcast: la sindrome dell’impostore ci accompagna ogni volta che usciamo dalla nostra area di comfort. E quando ho iniziato il mio lavoro da coach, era assolutamente al mio fianco.

Io ho preso la mia certificazione da coach e ho cominciato a prendere i miei primi clienti da coach mentre ancora lavoravo in finance. Ho un bel ricordo delle consulenze - a prezzi stracciati - per le mie prime clienti. Con loro iniziavo a fare esperienza mentre ancora non mi sentivo un coach e non avevo abbracciato la mia nuova identità. Ovviamente la sindrome imperversava: sarei mai stata in grado di fare questo ruolo senza sentirmi una truffatrice per la mia poca esperienza?

 

Quinta fase: la nuova identità

Cambiare le etichette è stato davvero difficile. Solo più tardi, durante la maternità e in pausa dal mio lavoro in finance, ho cominciato a dire a tutti che ero un coach e a definirmi come tale.  Da lì tutto è cambiato.

Le conversazioni che noi abbiamo con noi stesse sono fondamentali. E questo vale per le transizioni professionali così come per qualsiasi tipo di cambiamento vogliamo affrontare. Per essere diversi dobbiamo pensare di esserlo e trovare il coraggio di abbracciare il cambiamento.

Quello che pensiamo di noi stesse – che magari non siamo coraggiose o capaci, ad esempio – ci impedisce di riuscire nelle nostre intenzioni.  Darsi le etichette giuste è fondamentale: quando ho iniziato a darmi un nome diverso tutto è cambiato.  A quel punto ero un coach e dovevo in qualche modo entrare nel ruolo, prendere possesso di quella nuova identità e, nel momento in cui mentalmente ho iniziato a considerarmi un coach, ho cominciato anche ad agire come tale. 

 

Perché interrogarsi sul lavoro

Il lavoro è un fattore fondamentale del benessere nella nostra vita, e può essere anche intesto come lavoro che facciamo a casa con le nostre famiglie. Possiamo continuare a rimanere un lavoro che non ci soddisfa e convivere con l’energia negativa anche nella nostra vita personale oppure possiamo decidere di affrontare, con pazienza e coraggio, un percorso che ci porti dove siamo destinate veramente ad essere e che ci permetta di realizzare la nostra missione, qualsiasi essa sia.  

Ti suggerisco quindi di prenderti del tempo per riflettere sul tuo lavoro, cosa ti piace e cosa vorresti cambiare. A volte si tratta anche soltanto di approcciare il lavoro che si ha in maniera differente, cercando di stabilire dei limiti o nuovi obiettivi che ci permettano di vivere serenamente. A volte invece, serve proprio cambiare strada, e come hai letto, si può fare.

Se anche tu stai affrontando una transizione, ti trovi ad un bivio tra scelte difficili o fai fatica ad interpretare il tuo disagio sappi che non sei sola. Sono aperta a confrontarmi con te su questo argomento: scrivimi su Instagram o inviami una mail. A volte tutto quello di cui abbiamo bisogno è solo il giusto supporto.

 

 

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